Se il lettore vorrà
ingabbiare il costrutto poetico di Caggiula sotto l’orbita di una concezione
spazio-temporale o ancor peggio nell’alcova disonesta e gerarchica di un dogma,
ecco, allora il lettore uscirà sconfitto e perso e tradito nella caducità delle
parole, laddove è l’orbita semantico-lessicale della rivolta la preponderanza
dell’eccesso che invade e travalica e unisce i termini della poetica. Rivolta.
Perché in un tempo della parola celata nell’immondizia ed essa stessa rifiuto,
malalingua di potere e coercizione, affibbiata ad un uso che si vorrebbe
veloce, ma invece appare superficiale e modesto per bagaglio di scelta e
vastità, poca, di lingua, la proposta di Caggiula è una sfida. Una sfida alla
consumazione del linguaggio ordinario. Una matrice poetica che accresce il
piano dell’opera sotto la spinta di una ricchezza lessicale che sfregia
l’ordinarietà del contesto, sbrecciandolo, snervandolo, accusandolo di
tradimento nei confronti della lingua, qui da intendere come bagaglio di una
umanizzazione ormai dispersa che oggi, appunto, latita e dimentica la
concatenazione dell’uomo col mondo in quanto esperienza primaria che nell’uomo
allatta la travalicazione. È questa ricchezza semantica, concettuale, della
parola che in Caggiula gioca coi piani sfalzati di un tempo, propriamente
umano, che sconfina e non conosce alito di passato o futuro, ma si sostanzia in
un continuum paradossale di irripetibilità, dunque di presente, coerente con un
tempo che sfonda il quadrante dell’orologio, spezza le catene dell’ordine
preconfezionato, consapevole che l’esperienza pregressa dell’uomo è linfa e
sostanza e bagaglio prezioso che tiene insieme le fila dei tempi delle
generazioni, per l’appunto in un ambito di continuità, circolare, uroborica,
che funge da humus all’irripetibilità della vita, in quanto parte importante di
quel costrutto che rende umana l’esistenza. Il testo, orizzontale, rizomatico,
ha l’andamento naturale del lasciare tracce, impronte, segni, segmenti di un
passaggio umano, di un pensamento che similmente all’animale che percorre la
natura, percorso da essa, lascia lungo il suo attraversamento, così l’uomo,
umanizzato il mondo, è dal mondo percorso. Ogni parola è il seme di una o più possibilità.
Vie di fuga. Travalicamenti della proposta poetica e della lingua dell’uso
comune, qui affrontata col piglio dello sdegno, della rivolta, del non
rassegnarsi ad una morte impietosa del linguaggio, avvilito nello svalutamento.
Dunque l’andamento rizomatico, non verticistico, riconsegna la proposta alla
dimensione umana di una primavera di Giove, dove l’epicentro di una
mediterraneità ritrovata, greco/romana e figlia del fulmine, torna nella
convinzione del parlare da pari a pari, nell’eco della rivolta come
quotidianità esistenziale, modalità del mettere e mettersi in discussione, col
pensiero e con le tracce dell’azione.
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